giovedì 3 gennaio 2013

Una giornata in zona stadio fra spaccio e degrado.

Rispolvero una vecchia bozza di post, di prima di aprire il blog. Credo sia interessante. Anche se era di prima della recente retata della Polizia, temo che tornerà presto di attualità.

Ho recentemente letto l'articolo intitolato “Una notte al grattacielo fra spaccio e prostituzione”. 
Credo che l'articolo non rispecchi pienamente la reale situazione. Vi scrivo pertanto la mia  “percezione soggettiva” di quella che è una giornata ne mio quartiere.


La mattina comincia tardi, oggi rimango io con la bambina e non ho
nessuna voglia di fare fretta a lei e a me. Alle 10 usciamo, la giornata é ancora calda per essere novembre inoltrato, e l'unica incombenza è la spesa al supermercato vicino casa, così quando lei mi chiede di andare all'altalena del “parchetto”, quello costeggiato da corso Piave e via Ticchioni, mi lascio convincere. So chi ci gira, ma oggi splende il sole, e magari stamattina troviamo anche qualche altro bambino. Appena arriviamo lo sguardo cade subito sulla costruzione con lo scivolo, occupato da quattro, cinque ragazzi di colore che fumano. Il resto è libero, soprattutto le panchine vicino all'altalena (più panchine che giochi per bimbi in un parco dietro la stazione, ma chi le pensa ste cose?). 
La faccio salire con l'aria più giocosa possibile. Tempo cinque minuti e una brutta faccia si stacca dal gruppo sullo scivolo e viene a sedersi sulla panchina vicina. Forse faccio trasparire del nervosismo a mia figlia. Cosa vuole? Mandarmi via perché disturbo il commercio? Cerco di calmarmi.
Pago più tasse io di lui, quel parchetto è più mio che suo: decido di ignorarlo per quanto riesco. Non fa niente, ma tranquillamente si rolla una canna e se la fuma lì. Che ore saranno? Le dieci e venti?
Non mi sento in pericolo immediato, ma qualche folata di fumo giunge anche a noi, a mia figlia che ha due anni. Cosa devo fare? Mi viene da pensare che se qualcuno avesse fatto qualcosa per spingere i bambini del quartiere qui, anziché ghettizzarli all'acquedotto o alla bocciofila, forse mi sentirei più tranquillo.
Per fortuna poco dopo il tipo se ne va. Ma la tensione accumulata non va bene per quello che devo fare, decido di prendere la bimba e andarmene a fare la spesa. Torna il buonumore, mi diverto anche.
Finché sulla strada del ritorno, verso le 11.30, vedo un giovane
italiano in grazziella, che dopo un veloce colloquio con la
combriccola di extracomunitari sullo scivolo (due ore fermi lì a
parlare di cosa?) si ferma sulla panchina di prima. Stavolta dalla combriccola si stacca uno e con tono acceso lo manda via. Non sembravano così in attrito due minuti fa. Lui se ne va, sale sulla mura all'incrocio con Cassoli e comincia ad armeggiare aprendo cellophane e tenendo l'accendino acceso per lungo tempo. Io guardo attonito la scena, sarà rimasto lì per venti minuti, a un certo punto noto però anche un ragazzo, nero, stranamente fermo alla rotonda fra Cassoli e Ticchioni. Nessun buon motivo apparente per stare lì, se non che è un crocevia per controllare metà degli accessi al “parchetto”.
Mi vede e mi guarda con insistenza, mi allontano. Poco dopo mi
incrocia e mi butta là un “tutto bene?”. Quante volte me lo hanno
detto. Non so se è un modo per chiedere se vuoi la roba o se intendono “cosa guardi?”. Ma era la prima volta che me lo dicevano a mezzogiorno. Torno a casa.
Il pomeriggio mi sono buttato tutto alle spalle. Isola del Tesoro con mia figlia, tappeti morbidi e giochi a volontà. Alle 16 ci sono tante persone, di colore e non, che girano in bicicletta, ma argino la paranoia: non sono certo tutti spacciatori! Ma quello che gira l'angolo, col mento pronunciato e il cappuccio in testa sì. Quello lo vedo tutte le sere, passa dieci, quindici volte ogni ora davanti al mio portone. Mi chiedo se abita in zona o è già al lavoro.
Alle 19 usciamo per ultimi, davanti al pescivendolo di Via Podgora una macchina ci sorpassa, la conosco, c'è la nonna su. La chiamo per fermarla, un ragazzo di colore in bicicletta vede il mio cenno e si avvicina. “ Tutto bene?”. Ma sei scemo? Ho un passeggino, c'è una bambina dentro, come puoi pensare che voglia comprare? Lo ignoro, la nonna ci vede, rallenta. Mai rallentare in questa zona se non vuoi essere avvicinato da un pusher. Stavolta perdo la pazienza e lo mando via a male parole.
Ore 21, cena con gli amici, abitano in zona. Due passi e sono a casa è solo mezzanotte. Ma devo passare in corso Piave, fra via Ortigara e Quattro Novembre. Venti metri di strada, almeno sei ragazzi di colore in bicicletta, il venerdì e sabato.  Fermi. Semplicemente fermi, in attesa di clienti. Di fronte all'edicola, dall'altra parte della strada c'è un cono d'ombra che vanifica le spese per la super-illuminazione. Uno di loro orina contro l'albero. Ora sono solo, e con un bicchiere di vino o due di troppo. Lo riprendo. Lui prima se ne va, poi torna alla carica e mi urla contro. Altri sei in lontananza. Ho paura. La scaccio in parte mostrandomi impavido. Gli urlo “almeno parla in Italiano, lo sai parlare l'Italiano?”. Lui non vuole grane, se ne va. Giro l'angolo su Quattro novembre e vedo dieci, forse venti ragazzi di colore che bevono e parlano con un tono da fabbrica. Hanno aperto un pub “etnico”, di fianco all'unico negozio di cineserie che si è buttato sul commercio “etnico”. Bella idea. Fa il paio con quel Money Transfer che hanno fatto aprire in Ortigara. Ne sentivamo il bisogno. Non fanno male a nessuno, almeno non spacciano,
come dicono facessero i gestori precedenti. Ma un cliente orina fuori dal locale, non sull'albero o fra i bidoni come fanno di solito, semplicemente  sulla separazione della pista ciclabile verso Quattro Novembre, come niente fosse, pupparuolo al vento con le macchine che passano. Non dico niente. Aumento il passo e sono a casa. Ora a letto, cercando di non pensare di quanto si svaluta la casa. Con l'intima convinzione che le cose si lascino così per arginare un problema sociale in un'unica zona. 

La mia.

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